Il Diritto Canonico, che è per prelati e cattolici quello che per i cittadini tutti è la legge ordinaria, recita, all’art.285 – paragrafo 1, che ” I chierici si ASTENGANO DEL TUTTO da ciò che attiene al proprio stato, secondo le disposizioni del diritto particolare” e, al paragrafo 2 dispone ” evitino ciò che, pur non essendo indecoroso, è alieno dallo stato clericale.”
Ora, è sicuramente alieno dallo stato clericale, ciò che ha fatto Antonio Carfì (che essendosi posto fuori dalle regole ecclesiali, non chiamerò più padre) è sicuramente un atto contrario ai doveri dei servi di Dio e della Chiesa e, su questo, nessuno potrá dire il contrario se non disconoscendo la Chiesa e le sue leggi.
Chiarito questo non ininfluente dettaglio, viene da soffermarsi sulle gesta caritatevoli del Carfì, non per contestarle ma per chiarirle a quanti, erroneamente, credono e ritengono che tanto basti, ad un uomo di Chiesa, per essere definito “buon pastore”. E mi riferisco all’opera caritatevole della “colletta alimentare”, fatta anche di contributi materiali di aziende della grande distribuzione che con il loro agire mortificano operai e impiegati, impoverendoli. Mi auguro (ma non mi risulta) che così non sia, ma pongo a voi una domanda: se uno che ha deciso di servire la chiesa, i poveri, i bisognosi, gli ultimi, non fa neanche questo, allora cosa fá? Una mezza idea ce l’avrei ma la tengo per me.
I luoghi ecclesiastici e la disinformazione
Nella partita aperta a suon di commenti, asperrimi, a perdere sono stati i supporters di Carfì, i paucciani di professione e quelli in malafede: non per volontá mia e nemmeno di Dio, ma perchè è stato Carfì a recitare il “mea culpa”. Una sorta di “Schettino” che abbandona i suoi uomini durante il naufragio da lui provocato e che, come Schettino, non può pensare che il pentimento cancelli le colpe, perchè, insegna la Chiesa, non c’è pace senza giustizia.
Carfì, dimenticando l’Ufficio che esercita, è caduto nel peccato e, con un gesto d’impeto, ha mostrato il suo segno di apprezzamento sulla foto di un candidato a sindaco. Poi, a seguito delle reazioni, lo ha eliminato, ma invece di fare ammenda si è chiuso nel silenzio.
Forse per questo ci accontentiamo di una “quasi assessore” che rinunzia al Ministero del Culto per portare 50.000 visitatori (?) al museo vivente che rimane una lodevole iniziativa ma che va annoverata tra i richiami turistico-religiosi.
Ove i diversi quartieri avessero dei luoghi laici in cui riunirsi, il diniego di Padre Pasquale (per quanto di sua competenza) sarebbe non solo legittimo ma anche sacrosanto. Solo che i luoghi non ci sono e questo pone un problema soprattutto alla Chiesa, che non parla dei problemi sociali, non parla di povertá e di come combatterla, non parla di inquinamento, di morte e di sofferenza o ne parla sottovoce. Ma non parla nemmeno del perchè, a Villa San Giovanni, mancano queste strutture, in cui la gente possa parlarsi, denunciare i mali che l’affliggono, confrontarsi e trovare soluzioni. E lo farò a prescindere dal servizio da me offerto alla sua Chiesa (giusto per rispondere ai detrattori), e lo sfiderò a dimostrarmi che il mio è un atto eversivo o che, invece, non sia eversivo violare le leggi che un Ministro del Culto ha giurato di osservare e difendere.
Su questo mi piacerebbe confrontarmi con Padre Pasquale e sul conseguente senso della “dottrina sociale della Chiesa”, senza interferenze di “pecorelle” che si sono perse nel bosco, rischiando di essere aggredite dal lupo.
domenica 15 marzo 2015
di Antonio Morabito