PIANO STRUTTURALE COMUNALE – ALTRA OCCASIONE PERSA

 

 

Di Domenico Cogliandro

Egr. Sig. Sindaco, scrivo per dare un sostegno alla carica che ricopre, non all’individuo che la veste. Scrivo da cittadino, da architetto e da operatore culturale, per perorare l’attuazione di un Piano Strutturale (denominazione vigente dal 2002, per quello che una volta veniva chiamato Piano Regolatore) che i Suoi uffici hanno in un cassetto da diversi anni e che, nonostante uffici stampa d’epoca di plauso e sostegno, hanno trattenuto placidamente lì. Mi consenta la metafora, una città senza strumento urbanistico è come un computer senza sistema operativo: è inutile caricarlo di software (servizi, attività, iniziative) o di connettere hardware (infrastrutture, spazi pubblici, edifici), perché continuerà a funzionare al di sotto delle sue possibilità. La storia del nuovo Piano di Villa San Giovanni non è senza difficoltà: nasce con la prima sindacatura del dott. Rocco Cassone (1998), passa attraverso la consulenza (piano piano ridotta al lumicino, fino a renderla evanescente) del più eminente urbanista italiano, segue la dorsale di una relazione col prof. Alessandro Bianchi della Mediterranea (allora Rettore, poi Ministro, e ora docente universitario) e della definizione di uno staff interdisciplinare di redazione dello strumento, e si conclude con la scadenza del secondo mandato Cassone (2007), nel momento in cui un docente dell’Università di Reggio Calabria ha consegnato il Documento Preliminare (fase 2 di un processo in quattro fasi) al protocollo del Comune di Villa San Giovanni. Da quel momento l’incartamento, non senza incredulità, è sparito “nei” cassetti degli uffici preposti alla sua definizione attuativa. Sarebbe bastato un altro anno di lavoro per arrivare alla progettazione vera e propria, alla fase successiva, e invece no. Villa San Giovanni è già una città senza Storia, non per via del terremoto che cento anni fa la rese monca di una architettura storica sedimentata nel tempo, perché priva di memorie condivise: si nasce, si cresce, si vive e, sovente, si diventa oriundi del luogo, per via di una afasia collettiva che, ancor prima di diventare disinteresse politico, non riesce a comunicare la qualità di un sito, le sue narrazioni, i suoi valori, le identità. In tal senso un Piano della crescita urbana ha un suo peso: senza di esso la città diventa brutta, invivibile, discriminante, aggressiva. Negli ultimi vent’anni, tra la speranza che il Piano (derogando, o rivedendo radicalmente, l’impianto di Samonà del 1977) potesse cambiare le sorti di un centro urbano e l’inedia politica e tecnica che ne ha occultato le potenzialità, la città si è slabbrata, priva di logica, in assenza di servizi per la collettività, adducendo opere “pubbliche” prive di spessore e di visioni programmatiche, nonché abbandonando i residenti al destino di barcamenarsi all’interno di un posto che avrebbe potuto diventare luogo e non ne ha avuto il coraggio. Non sono le costruzioni edilizie che fanno le città tali, ma la capacità di gestire la comunità in tutti i suoi aspetti. Evidentemente è questione difficile da affrontare, per cui non va affrontata. Oppure, mi scusi la franchezza, non si sono avuti, direbbe Camilleri, i cabbasisi per mettere mano alla questione, perché logica dice che la cosa avrebbe intaccato, se non eroso, il potere consolidato del “do ut des”: si direbbe, in un altro modo, che la città è diventata brutta, in tutti questi anni, per colpa di gente senza cabbasisi che, ancora intrisi in un sudario da voto di scambio, hanno operato gattopardianamente per non operare. Cultori di uno stile o grigi esecutori di un modello? Il territorio cenideo grida vendetta e la sua Storia sta perdendo la forza accumulata nel tempo, per cui bisogna rimettere mano alle cose e chiamarle col loro nome in maniera che tutti ne possano fruire: senza strumenti di lavoro non si può lavorare, senza visioni del proprio futuro non si può vivere.

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